venerdì 17 novembre 2017

come si possa pensare alla dignità umana di chicchesia se nel reparto di Osservazione intensiva ci sono una ventina di letti stipati, in un camerone mischiati i moribondi con chi ha un osso rotto o è stato appena tirato fuori da lamiere di un'auto, come un tonno, non c'è aria solo un caldo stagnante di male, di gente che non si può alzare, bere, mangiare, lavare, persone vecchissime lasciate a morire, nemmeno velate da queste tendire color urina che restano tutte aperte o svolazzano di passaggio in passaggio di medici che hanno perso la trebisonda e il conto delle ferite e dei malanni, dei dati delle analisi, di quante, di come, di dove, di chi, e sempre pare esserci quel signore anziano in canottiera di lana come usava tra i contadini, beggiolina, a spalla larga, con l'occhio infossato e opaco che batte il suo bastone sul linoelum e guarda nel niente, si alza per bisogno e si tira dietro i fili neri e rossi della flebo, si blocca quando finisce la lunghezza, si blocca come una ricamatrice, stupito, incredulo, così torna a sedersi sul bordo del letto, a suonare quel ritmo sul pavimento, e ognuno è altrove, canticchia o si ricorda una barzelletta o continua i suoi chiacchiericci con mezzo sorrisetto di estraneità al tutto, sopravvivenza, sopravvivenza per cosa, come, quanto, vorrei introdurre d'ordine il silenzio, un pensiero per volta, non sentire la nuora che parla del bollito e spartisce come un generale femminile, nel suo ruolo eterno, il taglio del muscolo e il cotechino, poi si riprende un attimo, in questo luogo penoso, per dire al figlio mentre preme un tasto sul telefono,
cammina dritto
cammina dritto
e il ragazzino non si stupisce che la madre non lo abbia visto
e risponde
cammino dritto, senza enfasi, così se ne vanno, se ne vanno.

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